Parla nascosto da occhialoni scuri fascianti che lo rendono impenetrabile nell’anima, manco gliel’avesse insegnato Enzo Ferrari: «Vorrei solo andarmene nel modo giusto. Giunto a quasi 50 anni, ormai è l’unica cosa che rischio di sbagliare. E proprio non vorrei». Ci pensa su. Non ha finito: «Gli addii di Petty e Foyt mi dettero malinconia. Smisero che avevano già smesso, scesero quando la giostra era ferma da un pezzo». Nome: Dale Earnhardt. Età: 49 anni. Luogo: Daytona. Data: 3 febbraio 2001. Gara: 24 Ore. Segni particolari: leggenda. Tace, saluta e va a prepararsi per il primo stint al volante di una Corvette, nella maratona in cui corre in classe GTS col figlio Dale jr, Kelly Collins e Andy Pilgrim, il pilota inglese che lo segue costantemente all’interfono. Lo ha voluto lui. Desidera supporto nell’infield, il tratto tormentato, mentre sul banking, la parte velocissima, non ci sono problemi. Non ci sono mai stati, per Dale Earnhardt.
Cifre da sballo
Perché lui ha vinto 76 corse su 676, più 7 titoli in 26 stagioni nella Winston Cup Nascar. Ma i numeri come sempre sono solo dei precisi bugiardi, perché chi lo ama davvero non fa calcoli e si fida di sensazioni e storie ben diverse, da favola ma vere. Dale Earnhardt piace e basta. Per l’accento sudista, per quel suo sembrare erede ideale dei contrabbandieri di whisky che fecero nascere le corse Stock Car sulla sabbia di Daytona, proprio mentre nasceva lui, nel profondo Sud degli Stati Uniti. Da un padre che era uno degli otto figli di un operaio in uno stabilimento tessile a Kannapolis, nel North Carolina. L’ultimo gradino nella scala sociale di un bianco, con lo stesso reddito di un nero a schiena curva in una piantagione di cotone. Earnhardt è amato perché viene dal nulla. Perché fuori delle corse vede il nulla. Ha iniziato senza un dollaro, seguendo il padre Ralph, già meccanico e pilota della domenica nelle gare Nascar minori, morto a 45 anni, nel 1973, per un attacco di cuore. Dale ha giurato di farcela per dedicare a lui il suo riscatto.
S’è sposato teenager e ha avuto un figlio, Kerry, ma se n’è andato subito, lasciando il baby al nuovo compagno della ex moglie. Ben presto anche il secondo matrimonio va in fumo, perché la sua testa è solo sugli ovali. Brenda gli dà due figli, Kelly e Dale jr.
Oltre a Pilgrim, all’interfono parla anche il capo del team Doug Fehan e gli dice che sta andando tutto bene. Il boss ha conosciuto Earnhardt solo a pochi giorni dal via dell’endurance a Daytona 2001 e quando l’ha visto la prima volta avrebbe voluto mettersi in ginocchio, invece il suo mito l’ha stoppato dicendogli: «Alla 24 Ore parto da outsider e sia chiaro che farò di tutto per diventare in poco tempo un insider. La prego solo di una cosa: apprezzerei molto se lei mi trattasse come un ragazzo qualunque del suo team».
Alle origini dl mito
Sì, era un ragazzo qualunque nel 1975, quando debuttò nella Winston Cup, a 24 anni. Un pugno di gare anonime fino a che gli dettero la prima macchina buona, alla World 600, a Charlotte, nel 1978, per finire a muro a 4 giri dalla fine. Poi Ron Osterlund lo mise su una delle sue Chevy, al fianco del veterano Dave Marcis. Pochi mesi dopo Marcis se ne andò schifato perché il giovane e spregiudicato compagno di squadra in gara usava più il paraurti che il volante. No problem, meglio soli.
Nel 1979 Earnhardt vince la sua prima Winston Cup race a Bristol, nel Tennessee, su un anello da mezzo miglio, e a fine stagione è Rookie of the Year. L’anno dopo ne sbanca cinque, di corse, e ghermisce il primo titolo Nascar dei suoi sette totali.
Alla 24 Ore di Daytona 2001, intanto, ci sono due notizie per Dale sr: una buona e una cattiva. Quella bella dice che i prototipi stanno saltando come tappi di champagne e una vittoria di una Gran Turismo non sembra impossibile. Quella brutta reca l’elenco dei testacoda fatti dal figlio Dale jr sul bagnato, più la rottura di un assale che costringe la gialla Chevy n.3 a una lunga sosta. La Corvette CR5 di O’Connell ormai è imprendibile, là davanti. Dale sr non fa una piega e aspetta il prossimo turno di guida, all’alba.
La vera alba del suo mito lancia i primi bagliori nel 1981, quando “Big E” incontra il pilota-team manager Richard Childress che gli dà una macchina, felice di avere un top driver con tanto di sponsorizzazione dei jeans Wrangler. Ma a fine anno, tra crash e motori fusi, Childress si ritrova in rosso di 75.000 dollari e prega Earnardt di sistemarsi altrove, magari con Buddy Moore che schiera delle Ford.
Altri due anni di show gladiatoriale con massacri di bielle e fiancate e Dale torna proprio con Childress, il cui team è cresciuto. Nasce così uno dei connubi più lunghi e vincenti della Nascar, battezzato da due titoli, nel 1986 e nel 1987. Subito dopo come sponsor a sostituire la Wrangler arriva la Goodwrench, divisione di ricambi e assistenza della General Motors, che come colore ufficiale ha il nero con strisce bianche e argento. Si consolida il mito del “Man in Black”: l’Uomo Nero, che corre, terrorizza i rivali e vince col numero 3 sul tetto.
Già che c’è, Dale Earnhard si rifà una vita, sposandosi per la terza volta. La fortunata è Teresa Houston, figlia di Tommy, un pilota stock. La ragazza oltre che attraente è preparata e si fa intraprendente mentre contempla il marito scolpirsi una nicchia nell’immaginario collettivo americano con una grinta baffuta che lo apparenta al Bronson de “Il giustiziere della notte”, l’eloquio politically scorrect da Deep South e un comportamento con gli avversari in pista che farebbe sembrare Chuck Norris un postino su una Vespa 50.
Earnhardt tracima. È sempre più “Intimidator”, dopo essere stato “Ironhead”, testa di ferro, mentre suo padre Ralph era soprannominato “Ironheart”, perché di ferro sembrava avere il muscolo cardiaco, prima che cedesse.
Il settimo sigillo
Fatto sta che Dale al volante della nera Chevy numero 3 sui banking di mezza America mangia il cuore a un mucchio di gente che nella vita sa solo mangiare cuori e trionfa in 29 gare dal 1990 al 1995, la sua era d’oro, con titoli a grappolo nelle stagioni 1990, 1991, 1993 e 1994, per un totale di 7 campionati, eguagliando così “The King” Richard Petty.
Ora l’alba di Daytona 2001 è intrisa di pioggia. La 24 Ore vista da lontano sembra svolgersi sul pavimento d’un tempio immenso, rischiarato da fari che bucano colonne giganti di acqua nebulizzata. Dale Earnhard s’avvia dai box tuffandosi nell’ignoto, col co-pilota Andy Pilgrim che gli parla via radio suggerendo le migliori traiettorie sul bagnato, con un occhio al monitor in cui appaiono le immagini live della gara, dal network Speedvision. Dale non sa cosa vuol dire correre quando piove: non gli hanno mai chiesto di farlo, in vita sua. È questo ad affascinarlo, nella sfida che gli si propone la mattina del 4 febbraio 2001.
«Mi chiama in cuffia, verso la fine del suo turno, che era andato a meraviglia - racconta il team manager Fehan -: il tono non ammette repliche: “Ne voglio fare un altro, consecutivo”. Okay. Gli avevamo dato un tempo target ma lui gira tranquillamente due secondi al giro più veloce». Il box della Chevy n.3 sembra ammutolito. Earnhardt ora potrebbe spiegare a loro come si guida nella pioggia battente, mentre, malgrado i guai avuti, la sua Corvette è candidata a un clamoroso piazzamento nella top five e la vettura gemella di O’Connell pare addirittura poter vincere la corsa.
Già, magìe strane di Daytona. L’ossessione di Dale Earnhardt nella seconda metà degli Anni ’90 era divenuta invece la Daytona 500, unica perla Nascar che mancava alla sua collana. Non che il triovale gli creasse problemi, anzi, in 25 anni di corse ci aveva vinto 33 volte, compresa una striscia di 10 trionfi consecutivi nelle corse di qualificazione alla Daytona 500. Ma mai nella Big Race. Il problema era la 500 in sé. Sembrava stregata, anche se da quasi un quarto di secolo lui balzava puntualmente in testa per poi vedersela sfuggire. In due occasioni l’aveva persa agli ultimi metri, una volta per un problema a una gomma, un’altra per un incidente. Tanto che negli Stati Uniti gli sportivi credevano in due maledizioni: quella dei Boston Red Socks nelle World Series di baseball e quella di Dale Earnhardt alla Daytona 500.
Finalmente Re della D-500
Quando nel 1998 l’incantesimo fu spezzato, in centinaia di migliaia vissero il trionfo di “Intimidator” come uno schiaffo in faccia al destino. La metafora liberatoria recitata su asfalto d’un messaggio più filosofico che agonistico: è l’uomo che fa la sua sorte, non viceversa. Un grido di incitamento a seguire i sogni mai rinnegati, lanciato al mondo da un pilota di 46 anni che la rivista Forbes stimava con un guadagno annuale di circa 20 milioni di dollari, reduce da un crash che due anni prima a Talladega lo aveva lasciato con lo sterno spezzato, una spalla fratturata e una fila di costole rotte a fisarmonica, oltre che con la certezza di dover assistere impotente al nuovo, lungo regno Nascar del giovane californiano Jeff Gordon.
Ma Earnhardt, vicino alla cinquantina, sembrava risorto alla faccia dell’anagrafe, con tre trionfi nel 1999 e due nel 2000. E stravedeva per il figlio Dale jr al top della Busch nel 1998 e l’anno dopo in gara per la Dale Earnhardt Inc, gestita appassionatamente dal patriarca con la moglie Teresa in veste di business partner.
Alla 24 Ore di Daytona 2001 l’ultimo turno dell’Intimidator è finito. Dopo un’altra riparazione all’assale, la Corvette n.3 è seconda in GTS e quarta assoluta. Dale sr pare alle stelle: «Ho vissuto una delle esperienze più divertenti della mia vita. In una domenica così penso al futuro, a portare mio figlio alla 24 Ore di Le Mans per vivere un giorno perfino più bello di questo. Vedo nuovi orizzonti, ora».
Due settimane dopo, la Daytona 500 vive un infuocato finale, a mezzo miglio dal traguardo. Michael Waltrip e Dale Earnhardt jr comandano il gruppone, con Dale sr subito dietro che sembra comportarsi da splendido gregario, a propiziare la fuga per la vittoria dei due piloti del suo team. Qualcosa però non va nel verso sperato: Sterling Marlin urta il posteriore dell’amata Chevy n.3, che devia secca a destra, attraversa la pista e si schianta contro il muro. Mentre Waltrip festeggia il trionfo davanti a Dale jr, nell’aria si sparge la consapevolezza ghiaccia che qualcosa di terribile è successo. Dale sr, il signore della Nascar, è morto sul colpo per una frattura alla base del cranio. Il tabellone luminoso, scemo e insensibile come sa essere chi dà retta solo a un computer, lo dà 12° alla fine. Lo tratta tale e quale fosse vivo, insomma. Il resto è sgomento, rabbia e dolore, come gronda in questi casi la retorica.
Poi per anni fiammeggiano polemiche tra Teresa e il suo figliastro Dale, mentre una nuova generazione di vetture, le “Car of Tomorrow”, nasce da quella tragedia. Dieci anni dopo
Eppure, in pieno 2011, quel vecchio display merita considerazione, perché in fondo aveva ragione da vendere. Dale Earnhardt sr continua a vivere. Vive nell’immenso merchandising che porta il suo nome, nelle piazze, nelle strade a lui intitolate, nel dna del figlio che continua a seguire le scie paterne, con una recente pole proprio alla Daytona 500, sulle sponde dei pick-up che a ogni angolo degli Stati Uniti scorrazzano col numero 3 orgogliosamente galleggiante in campo nero, quale simbolico tributo a un uomo. A un pilota che sembra ancora in gara.
Non aveva pietà per gli avversari, lui. Non chiedeva scuse e non ne dava. Vent’anni fa, in una gara Iroc a Daytona, spedì brutalmente a muro Al Unser jr, con cui lottava per la vittoria. Tornato ai box “Little Al” incontrò Rusty Wallace, veterano Nascar, il quale gli disse asciutto: «Ora hai capito perché tutti noi della Winston Cup non sopportiamo Dale».
Era questo, Earnhardt. Divideva il suo mondo in due. Da una parte i tifosi che l’amavano, dall’altra i rivali che amavano odiarlo.
E il gruppone degli avversari “Intimidator” l’ha beffato fino in fondo, lasciandogli credere che stava meditando l’uscita di scena, quand’invece Dale Earnhardt è impalpabilmente restato con loro. Per sempre.
Ricordate? «Vorrei solo andarmene nel modo giusto», diceva alla 24 Ore di Daytona, quindici giorni prima di morire.
Dieci anni dopo sembra paradossalmente tutto chiaro. Per uno come lui, andarsene è stato solo un modo come un altro per restare.