Autosprint

Quando Silverstone era adrenalina pura

Quando Silverstone era adrenalina pura

27 lug 2010

Per entrare nel cuoredi ciò che è e fu la pista di Silverstone, meglio un viaggio emotivo e vissuto, piuttosto che tecnico e asciutto. Con una guida d’eccezione, ma a un patto. Dimenticate l’Andrea De Adamich apprezzato giornalista di Mediaset. Oggi riscopriamo il pilota Andrea De Adamich. Con 29 Gp disputati, tra il ’68 e il ’73. Il debutto in Sudafrica con la Ferrari e due quarti posti come migliori risultati: Jarama ’72 su Surtees e Zolder ’73, su Brabham. Ma l’Andrea driver è molto di più di questo: campione italiano di F.3 1965, al top nell’EuroTurismo ’66 su Alfa Gta, eroe delle Temporada F.2 e schierato con valore in F.5000 e Can-Am. Quindi pilota simbolo del Biscione nel mondiale Marche. Poi venne il giorno maledetto che tracciò, purtroppo con violenza, l’inizio della parte ?nale della sua carriera.
 
-Proprio a Silverstone, vero Andrea?
« Quel giorno, il 14 luglio 1973, ero molto contento. Finalmente, dopo aver corso con la vecchia Brabham Bt37, avevo a disposizione la Bt42 progettata da Gordon Murray, che rappresentava lo stato dell’arte. Era la mia prima uscita col nuovo modello, eppure sentivo che aveva potenziale ».
- Silverstone ti piaceva?
« Considera che da 5 anni vivevo in Inghilterra. Su quella pista avevo corso in F. 1, F. 2 e Turismo. Non solo: nel 1969 avevo battuto il record sul giro per le F. 5000, quindi, per certi versi, mi sentivo a casa mia ».
- Quanto era diversa rispetto alla conformazione del 2010?
« Era completamente differente. Velocissima, del tutto priva di chicane, piatta, non a caso di derivazione aeroportuale, senza punti di riferimento. Ma come caratteristica aveva una sequenza impressionante di curvoni veloci, dove era importante mantenere un passo elevatissimo e bastava un errorino per perdere tantissimo tempo. Sai, a Monza sul rettilineo, tra la Parabolica e il curvone, facevi in tempo a rilassarti, a Silverstone no. Eri sul dritto e già con la mente ti sentivi sotto pressione per la prossima curva. Il cervello era sempre in tiro. La vecchia Silverstone si presentava come uno stress senza riposo, un problema mentale ».
 -Non era certo la peggior pista degli Anni ’70.
« Certo che no. La prova del fuoco era la vecchia Spa di 14 km. Pericolosissima, velocissima e tra le case, con la strada a schiena d’asino. Là capivi che le corse non perdonavano, ma aveva un paio di punti lenti in cui prendevi fiato. Silverstone no ». 



- Nel Gp di Gran Bretagna parti in ottava fila, col 20- tempo, in una griglia che prevede ancora file da tre monoposto inframezzate da file da due. Siamo al completamento del 2° giro e stai lottando in mezzo al mucchio selvaggio.
« Il curvone davanti ai box era molto impegnativo. Per affrontarlo si parzializzava un po’ passando da 280 a 260 km/ h e a inizio gara le monoposto si trovavano vicine, in lotta e col pieno di benzina. La dinamicadi quanto accade è molto semplice. Il rookie Scheckter, che al volante di una McLaren in quel momento era 2 -, si gira a quel curvone, esce picchia contro il muretto e torna in pista mentre sta arrivando il gruppone delle monoposto. Il resto è facile immaginarlo. ».
- Una delle carambole più complesse e spettacolari della storia dell’automobilismo da corsa.
« Io in quel momento non vedo Scheckter, ma ho chiaro il problema, capisco quello che sta succedendo e penso alle macchine davanti a me. Non ho neanche tempo di avere paura ma solo l’impulso di cercare il varco per perdere meno tempo possibile e poter riaccelerare. Mi sembra di vedere uno spazio, mi ci butto e riapro il gas, ma nel frattempo la Brm di Beltoise che è al mio fianco viene tamponata, mi si mette davanti e io la centro in pieno, nella zona del motore. L’urto è forte, sono sempre in quinta e la mia Brabham, singhiozzando giù di giri ma ancora accelerata, mi indirizza verso il rail esterno. Un altro botto a 90 -, il peggiore immaginabile. Bum! Poi il silenzio. Interrotto solo dal ticchettio della pompa elettrica della benzina ».
- Hai provato dolore?
 « No, macché. Aziono lo switch- off per paura che fuoriesca un mare di benzina e la monoposto prenda fuoco, provo a liberarmi delle cinture, appoggio le mani fuori per sollevarmi, ma niente da fare. Sono incastrato, murato dentro ed è come se le mie gambe fossero immerse nel cemento. Riaffondo nell’abitacolo con una sensazione di amara sorpresa ed è lì che il dolore esplode. Ecco, in momenti come quelli capisci come funziona il cervello di un pilota. Il focus mentale è concentrato su situazioni precise, su problemi che devi risolvere in frazioni di secondo, non hai tempo per la paura. La verità che a volte ancora oggi mi sconvolge è questa: se fossi morto nel crash di Silverstone, non avrei avuto né tempo né predisposizione mentale per accorgermene. Sarei sparito come si spegne un interruttore, senza paura e dolore ».
- Torniamo alla tua situazione, che è meglio. Sei intrappolato nell’abitacolo.
« Il dolore si fa insopportabile e mi fanno la morfina per poter resistere. I soccorsi s’affannano per tirarmi fuori, ma non è facile. Bisogna segare la macchina longitudinalmente perché farlo di taglio vorrebbe dire intaccare i serbatoi laterali. Sono momenti drammatici per tutti, non solo per me. Pensa che adesso, nel 2010, se c’è un crash di quelli brutti alzano le coperte, nascondono la scena alla gente. Nel mio caso, in pieno 1973, no. Arriva il grande Stirling Moss con un microfono in mano e mi intervista in diretta per la BBC. Io sotto morfina chissà che rispondo. Poi arriva la paura, quella vera. Stanno tagliando la monoposto con una forbice ad aria compressa, che fende le lamiere come fosse burro. Io le gambe ormai non le sento proprio e vengo assalito dal terrore che la cesoia mi offenda un arto senza che io possa minimamente segnalare quello che sta accadendo. Per fortuna non succede. Finalmente sono fuori, in barella, ma sono passati 52 interminabili minuti dal momento dell’incidente ».
- Ti rendi subito conto dell’entità delle ferite?
« Sì. Anzi, penso di stare peggio di come sto e senti perché: una volta fuori, mi guardo la gamba destra che è dritta ma ha il piede inclinato a 45 - a sinistra. Brutto segno. La caviglia è andata. A preoccuparmi, piuttosto, è il dolore alla gamba destra, che è lancinante. Non potevo sapere che un tubo del telaio mi aveva tagliato dei muscoli, quindi la percezione era molto sgradevole, ma il danno contenuto. Piuttosto, il ginocchio destro era fratturato e ne conservo tuttora in me il souvenir: una vite impiantata per ricostruirlo ».



 - La degenza fu in Inghilterra?
« No, non mi feci toccare dagli inglesi. Già all’alba del giorno dopo partii alla volta dell’Italia sull’aereo personale di Bernie Ecclestone e da lì cominciò la mia rimonta verso il ritorno alle corse. L’anno dopo, il 1974, tornai con l’Alfa Romeo nel mondiale Marche e sinceramente sono contento che il crash di Silverstone abbia concluso solo la mia militanza in F. 1 ma non la mia carriera, che è ancora continuata con soddisfazione ».
 - E i colleghi? Al tempo si parlava ancora di “racing fraternity”, eravate molto uniti.
« Vero. Infatti mentre ero in sedia a rotelle nella mia casa al mare di Levanto vennero a trovarmi Fittipaldi, Reutemann e Peterson, ma di Jody Scheckter, l’uomo che aveva innescato l’incidente, manco l’ombra. Non credo si tratti di qualcosa che abbia a che fare con lo spirito dell’epoca. Jody fu semplicemente un maleducato: né una parola né un biglietto di auguri, dopo tutto quello che era successo. E dire che noi piloti costituivamo un gruppo di amici, ci si incontrava a ogni weekend: una domenica in F. 1, quella dopo in F. 2 l’altra coi prototipi... ». 
 - Ma c’è un bel ricordo, una cosa almeno da salvare seguìta a quel drammatico crash di Silverstone
« Sì che c’è. Ed è legata allo spirito circuito che vive intatto ancora Dopo l’incidente ricevetti la comunicazione che ero stato nominato onoraria socio permantente British Racing Drivers’ Club, il sodalizio esclusivo che ha in mano la gestione della pista e che rappresenta uno dei club più esclusivi legati al mondo delle corse. E ancora oggi ne faccio parte, ricevendo pass, inviti e bollettini delle riunioni, a testimonianza del fatto che il circuito di Silverstone è cambiato molto ma lo spirito galantomista dei vecchi tempi fortunatamente è restato intatto ».
- Hai rivisto subito i filmati dell’incidente?
« Sì e ho una cosa sconvolgente da raccontare. Ero in ospedale in sedia a rotelle e guardavo e riguardavo le immagini al proiettore. A un certo punto, a carambola avvenuta, diciamo due secondi dopo, quando tutto sembra appena finito, si vede che entra nel groviglio la March di un ritardatario. Picchia duro nel mucchio, motore da una parte e abitacolo dall’altra, ma il pilota scende senza problemi, si aggiusta e torna tranquillo verso i box. In quei momenti da spettatore ospedalizzato provavo quasi rabbia e pensavo: “ ma che logica c’è? Perché io sono qui ricoverato e lui non s’è fatto nulla? Che senso ha tutto ciò?”. Questo dicevo, tra me e me, mordendomi le labbra. Non potevo sapere che quel pilota si chiamava Roger Williamson e, tempo pochi giorni, sarebbe spirato nel rogo della sua March a Zandvoort. Quando morì Roger rimasi impietrito e ebbi una dura lezione che ancora oggi conservo. Ed è questa: nella vita non bisogna mai lamentarsi se sei ancora in grado di poterti lamentare. Sì, se puoi lamentarti, vuol dire che ti è andata bene ».
- Andrea, tu dai l’idea di una persona precisa, composta, dotata di buon senso. Come giustifichi con te stesso d’aver corso per anni e anni nel periodo più pericoloso e spietato? Non ti senti ora, da quieto signore di mezza età, pensando a quei tempi, di essere stato, assieme ad altri, un mezzo pazzo scatenato? « Non ero un pazzo scatenato (ride, ndr). Fa’ il parallelo con la vita di tutti i giorni: torna a com’era un’autostrada negli Anni ’ 70. Pensa alla Milano- Brescia senza barriere Jersey e un filino di rail in mezzo, che bastava un nonnulla per un salto di corsia, o pensa alla A7 Serravalle che si percorreva ancora in senso alternato. Tutto era diverso, non c’era un certo tipo di cultura e questo valeva per tutti, padri di famigia compresi. Anzi, ti dico che noi in pista i rail li avevamo e per certi versi pensavamo di guidare su circuiti che erano i posti più sicuri in cui andare veloci. Quanto alla mentalità del pilota, credimi, nulla è cambiato. Ieri vale oggi. Non si può aver paura e vincerla col coraggio. No, se corri il senso della paura non ti intacca. Semplicemente sai di non dover commettere errori. A me, per esempio, mi sa inconcepibile il rischio che corre un alpinista e credo che un alpinista possa pensare lo stesso di un pilota. Questione di dna ».



 - Ti piace Silverstone com’è ora?
« Col nuovo complex ha assunto sempre più la veste di tracciato multifunzionale che ospita F. 1, Motomondiale e che lavora tutto l’anno con le attività più varie, servizi efficienti e uno standard di sicurezza elevato. Il “ mio” Silverstone era un’altra cosa e sono contento di averci corso a lungo ».
- In F.1 la colpa dei pochi sorpassi è soprattutto dei circuiti, vero?
 « Penso di sì. Guarda Valencia. Bel posto per il mare e per le barche, ma per correre con le F. 1 lasciamo stare... Poi penso che ci sia qualcosa che non va anche nello spirito di certi piloti. Al contrario, un aggressivo puro come Hamilton se vuole passa sempre, perché ha più cattiveria e grinta. Guarda, io sono orgoglioso dell’epoca in cui ho vissuto. Ho corso a Le Mans senza chicane, Monza, la Targa Florio... i campioni di oggi di queste cose non sanno nulla o quasi. Forse l’unico che ha un approccio consapevole con la cultura delle corse del passato è Nico Rosberg. Per questo mi piace ». - - -

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