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Disfatte a Le Mans

Disfatte a Le Mans

27 lug 2010

Le Mans è apnea, respiro soffocato in gola nell’attesa del suo inizio. È crepitìo emozionale, mitragliate nel cuore da tenere a bada, suturare, lasciare da parte per far uscire la parte pragmatica di ogni componente di una squadra: pilota, ingegneri, manager, meccanici. Le Mans è la corsa più diffi cile del mondo, non solo la più lunga. Sfi anca il fi sico, stritola la mente, fa pulsare forte il cuore, rende tutti stanchi e insonni ben prima della corsa. C’è una Le Mans dei piloti che forse è la più comoda, c’è quella degli angeli custodi, quelli del dietro le quinte che il venerdì a mezzanotte trovi ancora nei box a sistemare, a valutare, rifinire, studiare, riflettere.
Le Mans non è sfida: è una missione, è il dovere farcela contro tutti e contro tutto. Gli occhi si portano appresso il peso di palpebre stanche già otto ore prima del via del sabato. «Sono distrutto: e dobbiamo ancora iniziare, non so come farò » diceva nella mattinata Andrea Mercatelli, l’ingegnere italiano che ha gestito la magnifi ca cavalcata della Porsche GT3 RSR di Henzler-Liez-Lieb alla vittoria tra le GT2. Eppure non ha perso un solo millesimo della corsa, seduto sul muretto o pronto con il “lecca-lecca” ad accogliere la sua creatura ai rifornimenti. E come lui tutti gli altri. 



Le Mans è anche responsabilità ampliata: per chi lavora con le grandi Case c’è il fattore marketing che incombe. Gli ospiti vengono invitati da ogni parte del mondo da Audi e Peugeot, coccolati, trasportati, accuditi, fatti riposare negli alberghi tirati su con raffi natezza in circuito, alimentati in hospitality dove grandi cuochi si esibiscono in piatti raffi nati, dove se si vuole c’è persino un’area massaggio, dove chiunque è al servizio dell’invitato sul fronte del comfort, dell’informazione. Sono milioni di euro che partono dalle casse aziendali, è la Le Mans della promozione del marchio, è la Le Mans nella quale un colosso mostra ciò che è.
È la Le Mans del rischio d’immagine, dove la sconfi tta è un dramma, dove la vittoria è gioia celata nel rispetto di chi hai battuto, perché la 24 Ore, si vinca o si perda, è civiltà sportiva, è insegnamento di vita, della sua etica. Rispetto innanzitutto, onore delle armi. Eppure per chi perde il fardello è tremendo. Non c’è possibilità di rivincita immediata: hai voglia di dire che nella prossima corsa andrà meglio, si dimenticherà la disfatta. No, non è così. A Le Mans si mette in gioco tutto ciò che si possiede. La stagione della Lms vale un quarto della 24 Ore. È un bicchierino, non la bottiglia. Scoccata la ventiquattresima ora, nello sconfitto monta la voglia di rivincita e la disperazione di dover attendere un anno intero, perché nulla vale Le Mans, perché il lunedì successivo chi ha lavorato e perso è sul banco degli imputati in azienda con l’incubo dei tagli, degli insulti, dei capricci di chi stando dall’altra parte e non conoscendo le corse non accetta scuse. Le Mans 2010 ha regalato in mondo visione le lacrime amare di Hugues de Chaunac: è la prima volta in tutta la carriera che il manager francese si è lasciato andare all’emozione, mandando a farsi friggere l’atteggiamento compassato, umile ma allo stesso tempo distaccato con il quale ha proiettato nel professionismo un’intera generazione di piloti francesi attraverso la sua Equipe Oreca o con cui ha regalato l’unica affermazione giapponese nella 24 Ore, alla Mazda nel 1991. De Chaunac piangeva per il ritiro dell’ultima Peugeot uffi ciale rimasta in pista, la numero 1 di Alexander Wurz.
Non per la sua dell’anno precedente che avrebbe esalato l’ultimo respiro ad Arnage a un paio d’ore dalla fi ne. In quel pianto a dirotto, da uno che avrebbe potuto anche amareggiarsi e nulla più, c’è tutto il disfacimento del sogno, il senso della sconfi tta e del fallimento che va al di là del semplice risultato sportivo: un anno sprecato in 24 Ore nella corsa che i francesi hanno fatto sopravvivere all’intemperanze del caso, al dramma del 1955, alle diaspore tra federazioni, ai boicottaggi, alla moda imperante e omologata della Formula 1 mangia tutto ma non Le Mans, sulla quale Ecclestone non è mai riuscito a mettere le mani e i costruttori hanno dovuto scendere a patti per essere presenti. Le Mans forte di se stessa che mai si specchia nel proprio fascino e che alla fi ne riconcilia con l’automobilismo più vero, più puro, rendendo umano e del tutto paritetico lo sforzo del colosso o del piccolo privato. La corsa dove i conti si fanno per davvero alla fi ne, dove le qualifi che contano un beneamato hacca, ovvero nulla, servono solo a indicare una tendenza, non la realtà delle cose. Le Mans terra di trionfi e brusche cadute.



 Di quelle che fanno male e a volte consentono risalite improvvise e basi dalle quali ripartire con un’ottica diversa, con un’umiltà maggiore. Le Mans da insegnare ai giovani piloti per farli crescere nella disciplina, nel concetto di squadra e non di individualismo, nel metterli al cospetto del fattore sorpresa, di ciò che è imprevedibile. Nel 1958 le Aston Martin DBR1 parevano quasi inavvicinabili. Avevano sfi orato l’impresa nel 1956, con Stirling Moss e Peter Collins secondi a un giro dalla Jaguar D Type di Ron Flockhart e Ninian Sanderson, subìto una secca sconfi tta nel 1957 sempre ad opera delle Jaguar dell’Ecurie Ecosse e dei team privati di Brousselet e di Duncan Hamilton, con cinque vetture tra le prime sei. Stirling Moss con la DBR1 che divideva con Jack Brabham aveva conquistato la pole girando a 195,955 km/h, in 4’07”300 e come Sebastien Bourdais si era involato a un ritmo incredibile oltre la curva Dunlop. Velocissimo, anche troppo tanto da far ritenere a Mike Hawthorn e a Wolfgang von Trips, i ferraristi di punta, di lasciarlo sfogare e di tenere a bada la Jaguar di Hamilton che li seguiva al quarto posto. Sembrava l’anno degli inglesi: Moss volava, imprimeva un ritmo insostenibile, la lepre che serviva per spezzare le reni alle Ferrari.
Tutto durò fino al trentesimo giro, un nulla per Le Mans, quando l’Aston si fermò ammutolita con il propulsore rotto dalle parti di Mulsanne. In quell’edizione ci furono tre scrosci di pioggia che mandarono a carte quarantotto qualsiasi tattica. Nel primo di questi, dodici vetture dissero addio alla corsa, compresa l’Aston di Stuart Lewis-Evans, fi nita fuori pista, poco dopo l’incidente mortale occorso a Jean-Marie Brousselet, «Mary» secondo pseudonimo, al volante della Jaguar D Type. Un’altra Aston di punta, quella di Brooks e Salvadori ai quali si aggiunse Lewis-Evans, ruppe il cambio al 173° giro quando ormai appariva chiaro che avrebbero vinto le Ferrari, grazie a uno strepitoso Hawthorn, capace di sfi orare il tempo di Moss in corsa. La beffa fi nale fu vedere l’unica Aston Martin al traguardo, con i due Whitehead, al secondo posto staccata di dodici giri: era un esemplare privato. La Casa britannica si sarebbe presa la rivincita un anno dopo, andando a vincere con una secca doppietta e lasciando nello scoramento la Ferrari, le cui Sport si ritirarono nonostante la pole di Behra e il giro più veloce di Gurney. Le storie di Le Mans si assomigliano tutte: spesso dal fallimento di un’edizione si costruisce l’epopea di una tradizione. Nel 1964 la Ford Motor Company decide che è venuto il momento di sfi dare sullo stesso terreno la Ferrari.
È un compito difficile: Henry Ford II e Enzo Ferrari, sebbene vivano separati da un oceano, si assomigliano. Soprattutto nel gusto della sfi da e nell’ambizione. Il primo ha proseguito la tradizione di famiglia, evolvendo il concetto di industrializzazione automobilistica. Il secondo è Ferrari, appena entrato nell’orbita della Fiat dopo avere rinunciato per orgoglio a cedere l’azienda alla Ford. È uno smacco per il magnate americano che all’improvviso decide di umiliare quell’italiano testardo, orgoglioso. Il gruppo Usa destina risorse all’epoca impensabili a un nuovo progetto: la Ford GT40. A realizzare il telaio viene chiamato Eric Broadley, colui che assieme a Colin Chapman ha portato la tecnologia della monoscocca in Formula 1. Il motore è derivato dal Ford che viene utilizzato nelle corse Indy: un 8 cilindri a V della serie Fairlane con monoblocco in alluminio di 4,2 litri. Sulla vettura c’è anche tecnologia italiana: il cambio è un Colotti a innesti frontali. L’approccio è disastroso. Nonostante il battage pubblicitario e di marketing - nella promozione della vettura la Ford rivela che è stato usato nella realizzazione anche un rivoluzionario calcolo teorico attraverso un computer - la GT40 è solo bella nelle sue forme. Ma l’aerodinamica produce effetti opposti a quelli desiderati. Invece di deportanza, causa portanza, il che va bene per un aereo, non per chi desidera mantenere le quattro ruote sull’asfalto. Nelle prime prove Jo Schlesser vola fuori pista. 



Le altre GT40, il cui nome è il simbolo dell’altezza in pollici della vettura, non brillano. La Ferrari prepara la corsa con una cura maniacale: alla 24 Ore il Drake attribuisce per quella stagione un’importanza che va al di là del semplice risultato sportivo. Da Maranello giungono una 330 P uffi ciale, per Surtees-Bandini, una della Nart per Rodriguez-Hudson-Foyt, una schierata dal colonello Haare per Graham Hill e Joachim Bonnier. Tre sono le 275P, le uffi ciali di Guichet-Vaccarella, Baghetti-Maglioli e Parkes- Scarfi otti-Abate. Nelle qualifi che la 330 di Surtees-Bandini conquista la pole, mentre la Ford GT40 di Ginther-Gregory è 2ª, il che signifi ca che forse gli americani hanno trovato il bandolo della matassa. Le altre Ford sono al 4° e al 9° posto, uniche presenze non Ferrari tra i primi nove. Al via le Ferrari vanno al comando, ma a metà del 2° passaggio arriva la doccia fredda per gli italiani: in testa e con apparente facilità c’è la GT40 di Richie Ginther che riesce a mantenerla fi no al primo rifornimento, quando arrivando tardi ai box per consegnare la vettura a Masten Gregory, lascia la leadership alla 330P di John Surtees, dalla quale si ritrova staccata di 30 secondi e braccata dalle altre Ferrari di Hill-Bonnier e di Guichet-Vaccarella. Il sogno sta per fi nire: in rapida sequenza poco dopo cede a Mulsanne il motore della GT40 di Richard Attwood facendo fuoco e fi amme. Siamo al 58° giro. Cinque giri dopo il cambio abbandona la vettura di punta di Ginther-Gregory. Non c’è gloria nemmeno per la superstite di McLaren-P.Hill-Salvadori, ferma a poco più di dieci ore dalla fi ne con il motore ko. Le Ferrari piazzano un secco uno, due e tre sul podio, anche se le 330P vengono battute dalla 275P di Vaccarella-Guichet con le vetture più recenti che soffrono di un eccessivo consumo. Poco serve alla Ford il giro più veloce ottenuto nelle prime fasi. Il colpo è secco, da ko ma negli Usa non demordono.
Danno appuntamento a tutti l’anno successivo con un progetto evoluto della GT40. Per gli uomini di Ford è altra musica. Comunque e quantunque. Nelle qualifi che la MKII di Amon-P. Hill lascia a cinque secondi e un decimo la prima delle Ferrari, quella di Surtees-Scarfi otti. Le altre Ford sono al 3° posto con Bondurant-Maglioli sull’esemplare del team Walker, al 4°, 5° e 10°. Le Ford vanno subito in testa con l’accoppiata neozelandese McLaren- Amon. Surtees è 3° ma tutte le GT40 sono nei primissimi posti, tranne quella di Bondurant che è stato costretto ai box per fi ssare la portiera chiusa male. Dopo mezzora McLaren ha un vantaggio di oltre 30 secondi sulla Ferrari di Guichet, mentre Bondurant risale la china. Delle Ford partite è sparita per il momento quella iscritta dalla fi liale francese di Trintignant-Ligier- Schlesser all’11° giro. L’avvicinarsi al tramonto è letale per la compagine Usa: al 29° giro spariscono in un colpo solo la GT40 del team Filipinetti di Bucknum-Muller-Ireland per la rottura del cambio e quella di Bondurant-Maglioli con il motore ammutolito. Al 45° giro il cambio si spezza sulla Ford più veloce di McLaren- Miles, all’89° passaggio la stessa cosa si ripete sull’esemplare di Amon-Hill. È un bollettino di guerra e non può servire a consolare la Ford che anche la Ferrari abbia un sacco di problemi, visto che nessuna delle prime tre vetture di Maranello al traguardo è uffi ciale: vince infatti la 250LM della Nart di Rindt-Gregory davanti a quella privatissima di Durnay-Gosselin e alla GTB Gran Turismo del team Swaters di Mairesse-Blaton. Tutte le Ferrari uffi ciali si sono ritirate con problemi ai freni, al cambio e al motore. 



Quello sarà l’ultimo anno in cui una Ferrari taglierà per prima il traguardo nella corsa più prestigiosa al mondo. Perché la ruota gira e a volte si smarrisce la strada. Dal 1966 al 1969 la Ford sarà capace di vincere quattro edizioni di fi la, delle quali quella dell’ultimo anno è entrata nella storia della Casa e di un pilota: Jacky Ickx. Fu l’ultima 24 Ore con partenza «classica», riproposta quest’anno come revival prima dei giri di allineamento, la prima della presenza delle Sport da 25 esemplari nella storia, del debutto tragico della Porsche 917 del privato Woolfe e della beffa finale per la Casa di Zuffenhausen con Hans Herrmann che al comando venne battuto in volata dalla ormai «anziana» Mirage Ford GT40 di Ickx, autore di una rimonta che per spiegarla ci vorrebbero venti «Cuore da corsa». Per la Porsche fu una batosta amara più di mille ritiri, ma guarda caso da allora in poi il marchio tedesco riuscì a imporsi in sedici edizioni, senza contare le affermazioni di classe. Certo non tutto anche in Germania andò come era stato previsto: a volte vinsero team privati, altre l’esemplare uffi ciale superstite ai quali vennero modifi cati in corsa i parametri della centralina grazie a una rudimentale telemetria installata su una 944 che trasmetteva i dati al reparto corse di Weissach: accadde nel 1987, anno in cui nel giro di due ore si ritirarono per rottura del motore ben 5 962C, seguite da una sesta alla 10ª ora. Ma Stuck-Bell-Holbert riuscirono a vincere approfi ttando della fragilità congenita delle Jaguar che poi trionfarono l’anno successivo. Perché Le Mans è un paradosso: a disfatta segue spesso la vittoria nel giro di un biennio. È accaduto all’Audi che nel 2009 non si dimostrò mai realmente all’altezza del proprio blasone ma che, rispetto alla Peugeot attuale, dimostrò comunque una certa sagacia tattica, piazzando almeno la R15 di Capello- Kristensen-McNish 3ª. Per la Peugeot che oggi piange c’è un continente intero che a Le Mans, eccezion fatta per la Mazda targata de Chaunac e quindi Oreca nel 1991, non è mai riuscito a trionfare: il Giappone. Per gli uomini del Sol Levante la 24 Ore è un’icona, il simbolo del desiderio. Si è trasformata nel corso degli anni in un’impossibilità. Ci ha provato la Toyota, modifi cando a più riprese i propri progetti rivoluzionari e creando vetture velocissime ma o troppo assetate di carburante o troppo fragili; l’ha imitata la Nissan. A nulla sono serviti gli sforzi e l’invasione in massa. La stessa Lancia ha fallito con lo splendido progetto LC2 negli Anni’80. Alla fine chi vince a Le Mans è perché la conosce e la interpreta, guardando avanti. Quello che Hugues de Chaunac in cuor suo sapeva e che forse spiega il suo pianto e che giustifi ca il dolore grande dentro al petto degli sconfitti.

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