M23, la prima McLaren iridata, ovvero la versione meccanizzata del film “Highlander, l’ultimo immortale”. Dalla carriera agonistica e dalle evoluzioni tecniche infinite, nata nel 1973 ispirandosi e combattendo un altro Highlander, la Lotus 72, della quale è tre anni più vecchia e con la quale attraversa e buca sei campionati consecutivi come fossero epoche. E poi c’è l’emozione che suscita a rivederla. All’effluvio Anni ’70 che promana dalle sue immagini, con la presa d’aria a periscopio piccola e quadrotta dei primi tempi, poi diventata gigantesca, quindi segata dal Gp di Spagna ’76, fino a dividersi in due orecchiette. Le meravigliose livree Yardley e Marlboro affiancate alle affascinanti colorazioni dei team privati, con fioriture di fantasie cromatiche stile Lucky Strike, Iberia voli, Centro Asegurador, Chesterfield, Lark, L&M e Melchester. Lei, la M23, compagna fedele dal 1973 al 1977 del sorriso bello di Revson, delle pelate di Hulme e Hailwood, dei basettoni pop di Fittipaldi piuttosto che dei riccioli timidi di Mass o della zazzera frangettata e ribelle di Hunt. No, a ripensarla ora non è più solo una monoposto, la M23, quanto l’icona d’un epoca in cui le macchine indovinate erano diverse l’una dall’altra e potevano durare quanto la carriera d’un pilota nei Gp. Certo, quelli che hanno studiato riempirebbero pagine a scrivere che la sua derivazione tecnica dal modello M16 che vinse la Indy 500 nel 1972 pare innegabile, quanto lo è l’esigenza del progettista Gordon Coppuck di adattare tali intuizioni allo stato dell’arte e ai dettami tecnici della F.1 1973 - col muso bello largo, a cuneo e i radiatori laterali - che aveva la Lotus 72 come punto di riferimento. Semplice, razionale, per niente rivoluzionaria, vincente quasi subito, nel 1973, con Hulme e Revson, poi iridata con Fitti in un 1974 che fa male al cuore solo a pensare alla sconfitta del Watkins Glen di Clay Regazzoni e della Ferrari 312 B3. E poi finalmente battuta da Lauda l’anno dopo, nella resurrezione iridata Ferrari con la 312 T. Quindi ancora una volta carnefice della Rossa, col finale maligno dell’uragano di Fuji 1976 - che sta diventando un film di Ron Howard perché la cronaca di quell’anno bella come una fiction da urlo lo è già -, quando Hunt beffa Lauda d’un punto, nell'uragano del Fuji.
Ecco, nell’immaginario collettivo la M23 - quando alla McLaren comandava Teddy Mayer -, ha inflitto le punture più dolorose ai ferraristi dai capelli ora radi, grigi o bianchi, eppure è amatissima a ritroso anche da loro, quale simbolo di una F.1 ancora pazza, ragazza relativamente povera e perdutamente bella. Una metamorfosi potenziata incessante, la sua, mai contrassegnata da lettere ufficiali accanto al numero del modello, come invece capita alla Lotus 72, anche se sintetizzabile - facendo una biografia non autorizzata -, con una versione B nel 1974, a passo lungo con tanto di distanziale e sospensioni modificate, la C del 1975 con l’airbox più ampio e funzionale, il muso corto, all’occorrenza più stretto e le fiancate ampliate, la D del 1976, che usa il cambio a sei marce, fa a meno dello snorkel e mette le orecchiette, e la E del 1977, coi bracci delle sospensioni adattati alle gomme anteriori di nuova misura. Infine la F, che era la versione standard delle monoposto vendute ai clienti, più spartane, razionali e gestibili. Okay, detto questo è come non aver detto niente. Perché l’arma totale della M23 era nascosta dal cupolino: si chiamava Cosworth Dfv, ma si leggeva Nicholson. Nome del pilota-preparatore capace (artefice della Lyncar F.1) di fare miracoli coi vecchi 3.0. In poche parole, in tutta l’epopea della M23 la McLaren le revisioni se le fa in casa e monta V8 Ford diversi dagli altri. Comincia Fitti nel ’74 con trombette d’aspirazione di differenti lunghezze e conicità, quindi nel 1975 s’inizia a parlare di “Super-Cosworth” ed ecco che nel 1976 dalla factory di Hounslow escono Dfv speciali a corsa corta con alesaggio 92,5 e corsa 55,5 mm, piuttosto che i canonici 85,6 x 64,8 mm. Ciò significa che invece che a 11.000 giri possono spingersi fino a 6-700 giri in più, sfruttando un basamento rialesato, pistoni speciali realizzati in Germania dalla Mahle e un nuovo albero motore, con corsa ridotta di 9,3 mm. Ecco perché il motore Dfv della M23 è tra i primi a rendere meglio con 6 rapporti, quando tutti gli altri lo utilizzano con 5. E così si spiega anche il fluido energetico che fa della M23 una creatura eterna, quasi quanto Dorian Gray. No, non è magia, ma tecnologia e sintonia fine. Visibile, come nell’aerodinamica e, soprattutto, invisibile. Poi il tramonto. Anche se il 1977 è l’anno d’uscita dalla squadra ufficiale, vengono realizzati ex novo tre telai, l’11, il 12 e il 14, poi venduti come tutti gli altri. E quando, il 5 ottobre 1980, lo sconosciuto Dennis Leech giunge 11° nel Pentax Trophy di Silverstone, gara di F.1 inglese, la storia della M23 - estesa pure in F.Indy con modelli derivati, in F.5000 e nella Can-Am grazie a una versione carrozzata dal privato McCormack -, durata otto anni pieni di corse, si chiude senza clamore. Quella nella fantasia nostalgica di tutti noi, ancora continua.
FU IL COLPO GOBBO DI GORDON COPPUCK
Grazie al fortunato progetto M23 il tecnico britannico è entrato nella storia della F.1
Quando concepisce la fortunatissima McLaren M23, Gordon Coppuck, che è nato nel 1936, ha 36 anni d'età ed è l'uomo forte dell'ufficio di progettazione della McLaren, assistito da un giovane tecnico di cui si dice un gran bene: John Barnard, di dieci anni più giovane, che nel 1980 farà scoppiare la rivoluzione con la McLaren Mp4/1, la prima Formula 1 col telaio in carbonio.
LA M23 IRIDATA CON HUNT NEL 1976
Lunghezza: 4,191 m
Larghezza: 2,083m
Altezza: 0,914 m
Peso: 587 kg con pilota
Carreggiata anteriore: 1,631 m
Carreggiata posteriore: 1,651 m
Passo: 2,718 m
Telaio: in alluminio
Trazione: posteriore
Freni: a disco
Cambio: Hewland 6 marce e retromarcia
Motore: Ford Cosworth
Num. cilindri e disposizione: 8 a V (90°)
Cilindrata: 2993 cm3
Potenza: > 490 CV
Valvole: 32
Pneumatici: Goodyear
Cerchi: anteriori e posteriori 13”
I PRIMI TELAI REALIZZATI NEL 1973, MENTRE I PIU' EVOLUTI A INIZIO 1977
Sono state addirittura tredici le M23 prodotte dalla McLaren anche se l'ultima scocca è stata battezzata "14" per ragioni scaramantiche
La McLaren M23 si distingue per caratteristiche tali da rendere la sua storia ai limiti dell’incredibile. Anzitutto la longevità. Prende parte a sei stagioni di F.1 iridata, condividendo nell’era moderna il primato con la vettura cui si ispira, ossia la Lotus 72. A ciò si accompagna una striscia competitiva infinita, con vittorie mondiali dal 1973 al 1976 - 16 in tutto -, rispettivamente con Hulme, Revson, Fittipaldi, Mass e Hunt. Nel 1977 lo stesso James Hunt, prima di scenderci in pista l’ultima volta a Long Beach, nel Gp Usa West, coglie il suo ultimo successo al volante della M23 nella Corsa dei Campioni a Brands Hatch, non valida per il mondiale. Altro dato abnorme, il numero di telai costruiti: le scocche sono numerate dall’1 al 14 anche se in realtà risultano una in meno, perché il n.13 per scaramanzia non viene utilizzato. La produzione in miniserie porta a una vera e propria commercializzazione della M23, vettura ideale per i piloti privati in avanscoperta nel circus. Il primo di essi fu il sudafricano Dave Charlton (Team Scribante), nel 1974-’75, seguito da Emilio De Villota (Equipo Espanol) nel ’77-’78, Brett Lunger e dal futuro iridato Nelson Piquet (Bs Fabrications) nel ’77-’78 e Tony Trimmer (Melchester), nel 1978 anno in cui vinse la serie Aurora Afx, la F.1 di serie B organizzata su base britannica. Obbligatorio tenere a mente che con la terza M23 ufficiale nel 1977 debuttarono in F.1 Gilles Villeneuve (in Inghilterra) e Bruno Giacomelli.
I SEGRETI DEL RAPPORTO TRA L'IRIDATO BRITANNICO E LA SUA F.1 PREFERITA
James diceva che con la M23 la gara chiave del mondiale 1976 resta quella di Anderstorp, dove era giunto solo 5°. Ecco perché...
C’è un pilota la cui carriera in F.1 rimane inscindibilmente legata alla McLaren M23 e il suo nome è James Hunt. Dopo essersi fatto una cattiva reputazione in pista nelle formula propedeutiche, guadagnandosi il soprannome di “Hunt the Shunt”, laddove shunt significa incidente, il britannico, comunque velocissimo e in continua maturazione, esplode nel biennio 1974-1975 al volante della Hesketh, mostrandosi ultra competitivo nel mondiale di Formula 1 e vincendo a sorpresa il Gp d’Olanda. Così, quando la McLaren cerca un sostituto all’ex campione del mondo Emerson Fittipaldi, che lascia il team per imbarcarsi nell’avventura Copersucar, è proprio ad Hunt che pensa. James si ritrova al volante della M23, la vettura più vecchia e blasonata dello schieramento di partenza 1976. Questi i suoi ricordi: «Il mio approccio con quella McLaren e la squadra in genere rappresenta un salto parallelo a quello che avevo compiuto tre anni prima. Nel senso che con la squadra di Lord Hesketh mi si chiedeva di diventare un possibile protagonista, quando non avevo alcuna esperienza di guida nelle prime posizioni, in F.1. Con la McLaren lo step era ancora più grande e la pressione massima, visto che sapevo benissimo che la M23 era una macchina vincente e la squadra puntava al mondiale». La M23 cambierà la vita a Hunt, in una stagione da urlo, coronata col titolo mondiale in Giappone, dopo la sfida infinita a Lauda, agevolata dal drammatico rogo dell’austriaco al Nürburgring e culminata con una rimonta incredibile che porta il 29enne britannico a colmare 28 punti di distacco e ad aggiudicarsi il titolo nell’uragano al Fuji, d’una sola lunghezza sul rinunciatario Niki, travolto dall’uragano in pista. «Il mio rapporto con la M23 in realtà era cominciato nel peggiore dei modi, nel weekend del Gp del Brasile 1976, gara che si correva il 25 gennaio. Non avevo avuto tempo neppure per girarci sull’asciutto e il via delle prove a Interlagos segnò il mio vero debutto con la macchina. Un disastro. Lo sterzo era duro, il cockpit scomodo, la messa a punto tutta da rifare. Fu traumatizzante. Nelle qualificazioni non ne voleva sapere di andare, anche se l’unico giro normale che riuscii a effettuare mi regalò la pole. Poi ci fu un motore rotto nel warm-up e infine l’acceleratore bloccato in corsa, che mi regalò un ritiro. Niente male, come inizio». Le cose migliorano con un 2° posto in Sudafrica e la controversa vittoria al Gp di Spagna, dove Hunt venne inizialmente squalificato in quanto sulla sua McLaren la misura presa sulle gomme posteriori era di 18 mm superiore al regolamento. Secondo il team la violazione era dovuta a un’anomalia nel comportamento degli pneumatici. Il Tribunale dell’appello della Federazione decise infine di riammettere in classifica Hunt, convertendo la squalifica in una multa di 3.000 dollari. «Di vero c’era solo che la M23 era la F.1 più ampia del Circus, ma dentro le regole. La larghezza era la sua caratteristica più tipica. E inoltre rappresentava una specie di laboratorio, una delle prime monoposto ad essere modificata quasi gara per gara, con un incessante lavoro di affinamento. Un altro dei segreti della sua longevità». A metà stagione però la M23 è in crisi tecnica: «Belgio, Montecarlo e Svezia sono tre Gp buttati via perché dopo la Spagna avevamo spostato i radiatori e fatto alcune modifiche che avevano compromesso la funzionalità dell’ala posteriore. In poche parole la M23 era diventata una monoposto inguidabile. Mille volte mi hanno chiesto qual è stata la mia gara più bella di quel magico 1976, in cui ho vinto 6 Gp e mi sono laureato campione del mondo. Io dico il Gp di Svezia in cui sono giunto 5°, guidando al massimo senza che se ne accorgesse nessuno. Quel giorno presi due punti e alla fine ho vinto il mondiale di uno, quindi, leggendo la cosa con razionalità, è ad Anderstorp che ho vinto il mondiale ’76: nel momento più basso della M23. La macchina viene messa a posto per il Gp di Francia, dove vinco, e da lì in poi c’è la vera svolta». La M23 fu mal sostituita dalla M26: «La M26 fu portata al debutto da Mass nel 1976 e io preferii continuare col modello vecchio, più collaudato. Fu una scelta giusta». Il punto forte della M23? «Essere sensibilissima alle regolazioni e molto, molto affidabile. Dal Gp di Monaco 1976 all’inizio del 1977 marciò come un orologio».