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Webber: io, gli avversari e Simoncelli

Mark Webber è un personaggio vero, originale, una mosca bianca nel circus della F.1.
In queste righe trovate un estratto dell'intervista pubblicata sul numero 45 di Autosprint in edicola.


Da dieci anni corri in F.1: tu che sei partito dalla gavetta, oggi ti senti bene adattato alla vita da Vip?
«Io credo che ci siano ancora un sacco di piccole cose che, prese singolarmente, mi danno un grande piacere. Il fuoco, per esempio: i falò all’aperto. Sono cose con le quali sono cresciuto. Faccio questo sport da tanti anni e questo significa che sono stato in alberghi bellissimi, che ho volato su ogni tipo di aeroplano. Ho fatto tante cose particolari... Ma ancora non mi sento al 100 per cento a mio agio con tutto questo. Lo accetto come una funzione del mio lavoro, ma a parte questo, per me non è poi così difficile rimanere vicino alle mie radici. A quello che mi è sempre piaciuto. Voglio dire, chi lavora con me sa che a volte, essendo un pilota di Formula Uno, mi succede di diventare un po’ “difficile”, un po’ troppo esigente. Ma il più delle volte mi piace provare... anzi, nemmeno verso il gp abu dhabi provare, mi piace essere come sono. In questo, l’insegnamento della famiglia è estremamente importante. E io ho avuto una famiglia formidabile e cerco sempre di portarmi dietro, ogni giorno, il loro esempio».
Viene da pensare a quella storia di te e tuo padre in un hotel di Monaco, con lui che russava... Hai nostalgia di quegli anni? «Nostalgia? Be’, è parte del viaggio, a tutti gli effetti. Quando lasci l’Australia dicendo “vado a fare il pilota di Formula Uno” la gente se la fa addosso dal ridere. Ti dicono: non c’è nessuna speranza, per te, di farcela. E poi, nella tua storia, ci sono non dico centinaia, ma un bel po’ di storie che di porti dietro, cose che hai fatto e che contribuiscono a farti diventare quello che sei. Proprio l’esempio che hai fatto di Montecarlo: non potevamo permetterci una stanza per ciascuno, perché costavano molto. Così dormivamo tutti nella stessa camera, mio papà russava un casino e io ero infuriato perché il giorno dopo partivo in pole position per la gara di F.3000... Questa è la storia che ho sempre raccontato, papà dice che sono cazzate ma invece è tutto vero. Lo so bene io...».
La morte di Simoncelli sembra averti colpito profondamente. Eppure non lo conoscevi di persona...
«Non lo avevo mai incontrato. Ma conosco molto bene persone che, a loro volta, gli erano molto vicine. Non riesco ancora a crederci... Quando ha avuto l’incidente l’ho visto alla tv, ero tutto solo, in Australia. Ann (Ann Neal, la sua compagna- manager, ndr) era di sopra, in ufficio. È stato, come dire... il più spaventoso cocktail di circostanze che potessero fare accadere una cosa del genere. Una serie di piccoli fattori che l’hanno resa una tragedia. Era così giovane, era un personaggio così sensazionale... E poi ci sono state le parole di suo padre. Incredibilmente forte, un esempio per tutti. Sentendolo parlare capivi perché Marco era una persona così speciale, ma anche che papà straordinario aveva. Dalle sue parole, io ho tratto una grande forza. Davvero straordinario».